Neve, emergenza turismo
La crisi degli impianti di sci in Appennino non arriva come un temporale a ciel sereno, ma è un processo che dura da decenni
– 33 anni fa, nel 1990 il primo rapporto dell’IPCC prevedeva una continua diminuzione delle precipitazioni, piogge e neve, nei paesi del Mediterraneo
– 30 anni fa, nel 1993, l’istituzione del Parco Nazionale dei Sibillini nasceva come alternativa al modello economico basato sullo sfruttamento della montagna indotto dall’industria dello sci, dall’urbanizzazione selvaggia delle seconde case, dall’aggressione del turismo mordi e fuggi e della proliferazione delle strade in quota
Quando degli operatori economici, impresari e responsabili delle attività economiche subiscono gli effetti di una crisi e sono costretti a chiudere è sempre un fatto doloroso per loro, per chi nelle imprese lavora, ma anche per a comunità tutta che trae notevoli benefici dal lavoro di ognuno.
Quando la crisi riguarda un territorio, come l’Appennino, e nel nostro caso i monti Sibillini, già devastato dagli effetti del terremoto, fortemente svantaggiato dal punto di vista dell’economia, dell’insediamento abitativo, dalla mancanza di infrastrutture e servizi, la perdita di una qualsiasi anche marginale attività economica produce un danno ancora maggiore e spesso irrisarcibile.
In questi giorni in tutto l’Appennino i gestori degli impianti da sci e delle infrastrutture turistiche lamentano sulla stampa la gravità della perdita totale di ogni profitto, per la mancanza di neve e chiedono alle regioni e allo stato di essere economicamente aiutati. Richiesta in sé legittima specialmente in Italia dove ormai il ricorso al pubblico è prassi comune. Alcuni responsabili degli impianti, nei Sibillini, a sostegno della loro richiesta chiedono che si attivino gli interventi a sostegno dell’economia privata come nel caso dell’epidemia di covid.
Qui però le cose sono ben diverse e è necessario evitare di fare di ogni erba un unico fascio.
L’industria dello sci in Appennino è da sempre diseconomica e ad alto impatto ambientale
Che gli impianti per lo sci di pista, in Appennino, per le sue caratteristiche orografiche, specialmente per le stazioni al di sotto dei 2500 -3000 metri di quota, non possono avere futuro è una certezza da almeno 30 anni e più.
La crisi da innevamento, pertanto, non può essere paragonata come evento, all’epidemia di covid, che è piombata sulla popolazione mondiale, in modo imprevisto e devastante. Essa è un fatto ben noto da molto tempo, sul quale si sono voluti chiudere molti occhi da parte di chi poteva e doveva mettere in atto processi di conversione dell’economia montana.
Il parco nazionale dei Monti Sibillini fu istituito nel ormai lontano 1993, ben 30 anni fa, dopo altri 20 anni almeno di lotte degli ambientalisti proprio contro quel modello di sfruttamento della montagna che consisteva nell’irretire la montagna di impianti di risalita e piste da sci, urbanizzazione selvaggia di seconde case e strade in quota per il turismo, mordi e fuggi, automobilistico. Il cuore del modello, allora apparentemente vincente, di aggressione turistica della montagna fu Ussita che amava definirsi la “Cortina dei Sibillini”. I resti di quello scempio, come i piloni della funivia del monte Bove, ancora segnano tristemente la nostra montagna. Uno dei punti di forza, invocato dalle associazioni ambientaliste contro il modello dello sci da pista esteso ovunque era che la neve, in Appennino, è sempre precaria e l’industria dello sci, già allora, sopravviveva anno dopo anno solo con abbondanti iniezioni di denaro pubblico. Un’attività economica incapace, per motivi naturali, climatici e orografici, bacino di utenza limitato, incapacità di integrare tra loro attività economiche diverse, ecc., di sostenersi con le proprie gambe. Si immaginava allora, con l’istituzione del Parco dei Sibillini, che questo potesse fungere da catalizzatore per avviare e guidare quel processo di conversione del territorio montano verso un’economia ambientalmente sostenibile, incentrata sulla forte interconnessione tra attività agro pastorali tradizionali d riqualificare, turismo ecologico e industria ad alto contenuto tecnologico, che purtroppo non è mai iniziato.
Il cambiamento climatico è un processo in atto da molto tempo
Il primo rapporto dell’IPCC ( Gruppo Intergovernativo Sul Cambiamento Climatico) è del 1990 e su questa base nel 1992 l’ONU mise a punto la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC) che, tra le tante cose, indicava quali zone del mondo avrebbero subito a breve gli effetti deleteri dei cambiamenti climatici. Per il Mediterraneo i più importanti effetti climatici previsti erano significative diminuzioni delle precipitazioni, specialmente invernali e nevose, in concomitanza con un progressivo aumento delle temperature. Il tutto avrebbe provocato una tropicalizzazione del clima con precipitazioni annuali scarse, ma concentrate in eventi brevi e molto intensi, e una diffusione dell’aridità in tutta la regione mediterranea. Oggi tutto questo, purtroppo, è drammaticamente sotto i nostri occhi. I decisori politici però, inseguendo il tornaconto di breve periodo, seguitano ad invocare le stesse politiche di trent’anni fa proponendole come risolutive dei mali che esse stesse hanno contribuito a provocare.
Il grafico dell’Assam sulle precipitazioni dell’anno appena trascorso mette in evidenza che l’inaridimento del clima, predetto più di trent’anni orsono dall’ONU è già qui con i suoi effetti deleteri. Non tanto sui proventi economici di un’industria dello sci, sommato tutto di limitato impatto economico, ma sulla possibilità di poter disporre di sufficienti risorse idriche per gli usi civili, per la produzione agricola, energetica ed industriale in questo paese. Nel ’22 ci sono stati 9 mesi su 12 in cui le precipitazioni complessive (pioggia e neve) sono state drasticamente inferiori a quelle delle medie del trentennio precedente.
Purtroppo, malgrado l’evidenza del fallimento dei modelli di turismo di massa che non hanno impedito lo spopolamento della montagna e il suo abbandono, l’appropriazione di risorse che saranno sempre più rare e preziose, come l’acqua, si sprecano occasioni importanti come i fondi del PNRR che si vogliono ancora orientare su dubbi progetti che riguardano l’industria dello sci, anche se declinati con terminologie “green”, come ad esempio i progetti di potenziamento dell’area di Sassotetto a Sarnano e tanti altri.